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Le gravi responsabilità del mondo della politica

Opinionista: 

Le dimissioni di Nicola Zingaretti dalla segreteria del Partito democratico – dimissioni volutamente traumatiche, non concordare, in aperta polemica con i suoi – valicano l’ambito asfittico, opportunistico e ristretto di quel che rimane della sinistra organizzata nel nostro Paese. Perché esse hanno voluto porre, almeno a quel che pare, un problema che per la verità già si presentava molto evidente, ma che oggi è ancor più nitido: la distanza tra gli interessi delle dirigenze politiche – tutti orientati verso esigenze di distribuzione del potere, di spartizione delle cariche, d’identificazione dei nomi attraverso i quali occuparle – e la drammatica situazione che vive il Paese nelle sue più reali esistenze: quelle della gran massa di cittadini che hanno perso il lavoro, non hanno modo di dare forma alle proprie aspirazioni ed ai propri talenti, soffrono la disperazione dell’assenza di futuro, angosciati da un passato che aveva forse promesso loro troppo ed oppressi da un presente che li ha privati di quel che si dava forse per scontato. Cittadini che soprattutto non sanno come dar scopo alle proprie energie e che quindi si chiudono nella disperazione dell’inerzia forzata. Nell’attuale congiuntura, le formazioni politiche dovrebbero domandarsi delle ragioni per le quali siamo ridotti nello stato miserevole in cui siamo. Ragioni che non sono la fase epidemica la quale, come ogni crisi, ha messo spietatamente in evidenza quanto tenevamo celato ai nostri occhi. Tutti abbiamo tirato un sospiro di sollievo quando il nuovo Esecutivo ha sostituito l’improbabile commissario Arcuri con il generale Francesco Paolo Figliuolo, già comandante logistico dell’Esercito italiano, incaricandolo della gestione della campagna vaccinale; ed anche la notizia della chiamata di un’azienda leader nel campo della consulenza, la McKinsey, per collaborare alla scrittura del Piano nazionale di ripresa e resilienza – di quel che ci serve per ottenere ed investire i 209 miliardi dei recovery fund – dà un senso del fare che sino ad oggi sembrava smarrito tra vuoti proclami pubblici, propagande senza senso ed una sostanziale inerzia. Ma questo non è che un lato della medaglia, quello che è più direttamente sotto il nostro sguardo; l’altra faccia è rappresentata dalle cause per le quali si rende necessario ricorrere all’esercito per praticare una campagna vaccinale e ad una formidabile lobby internazionale per allestire un credibile programma d’interventi nella nostra Nazione. In teoria l’Italia, Paese avanzato industrialmente e sul piano della civiltà, dovrebbe disporre di un’amministrazione sanitaria distribuita capillarmente sul territorio, impinguata da una pletora di dirigenti, funzionari e ben pagati impiegati, un’amministrazione che non avrebbe dovuto incontrare grandi difficoltà a porre in moto un’efficiente macchina per inoculare il vaccino ad una popolazione ben conosciuta all’anagrafe e relativamente istruita (almeno sulla carta). Come pure, grazie ai robusti Ministeri dello Sviluppo economico, delle Infrastrutture, delle Politiche agricole, del Lavoro, del Turismo, della Cultura, dell’Istruzione e via dicendo, oltre che della pletora di amministrazioni regionali ramificate sul territorio, non solo avremmo dovuto essere in grado d’avere un quadro chiaro delle priorità negli investimenti da compiere, ma avremmo anche dovuto disporre anche d’un’adeguata progettazione da realizzare, com’è proprio d’una comunità organizzata che non s’affidi alla giornata come un viandante a zonzo, ma ad una programmazione delle proprie esigenze e dei mezzi per perseguirle. E invece è proprio così: un generale dell’Esercito campione di logistica, per porre in atto una campagna vaccinale che, a differenza di quanto si blatera, non equivale affatto a condurre una guerra, dove ci si difende dalle bombe degli aerei nemici e dai carri armati che seminano distruzione, non solo morte; e consulenti esterni, i quali evidentemente non verranno qui a caso, bensì con le proprie precostituite idee e motivazioni, che li spingeranno a promuovere gli interessi dai quali sono sospinti. E dobbiamo anche esserne lieti, perché altrimenti ci sarebbe stato il nulla. Questo è il nostro vero, grande disastro, accumulato in decenni di progressivo smantellamento delle strutture amministrative dello Stato. La burocrazia, da noi, suona male, ma non è ovunque così. La burocrazia è la macchina dello Stato, quand’essa manca, dello Stato c’è solo una parvenza, e la parvenza peggiore, quello d’una sanguisuga che succhia energie senza restituire linfa vitale per l’organismo sociale. Lo Stato c’è per questo, non per altro, dovrebbe esser lì a far da infrastruttura perché l’operosa società civile s’industri al meglio per realizzare i propri programmi produttivi e cooperativi. La nostra storia è stata diversa: la pubblica amministrazione, in tutte le sue articolazioni, salve rare enclave, è fatta di personale entrato nei modi più vari e tortuosi, completamente demotivato, che ritiene nella prevalenza di poco o nulla dover restituire di quanto riceve, privo di quello “spirito di corpo”, che fa la dignità e la ragion d’essere di qualsiasi apparato amministrativo efficiente, indirizzato ad affermare se stesso, ad un tempo attuando gli scopi per i quali la comunità l’ha creato. Invece, qui una politica invadente e clientelare – come circa 150 anni fa già denunciava (ma il cointesto era assai meno drammatico) Marco Minghetti – ha fatto dell’amministrazione pubblica il ricettacolo dei propri manutengoli o lo strumento per la creazione del consenso in cambi di “sistemazioni”, a non rendere. Se la politica avesse una maiuscola per iniziale consonante, su queste cose dovrebbe interrogarsi, sulle sue incommensurabili responsabilità per il pietoso stato in cui siamo ridotti, mendici lì ad implorare improbabili aiuti. Ed invece già si sente dire che nel Partito democratico s’è aperta la guerra per la successione nella provvisoria carica di segretario traghettatore in attesa del congresso. Da non credere, ed è così.