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L’oreficeria campana e la speranza di rinascita

Opinionista: 

Il 2020, per l’oreficeria italiana, è stato un anno ancora più negativo che per diversi altri comparti produttivi. Le stime, non ancora definitive, valutano la flessione del fatturato subita dalle aziende tra minimi del 30 e vette del 50%. Il crollo causato dal lockdown, dalle restrizioni di ogni tipo, dalla crisi economica innescata dal covid 19, per un settore che si caratterizza per la produzione di gioielli e preziosi in genere, quindi di articoli di lusso, è stato superiore alla media. E’ chiaro che, allorché si verifica il cosiddetto cigno nero, l’evento traumatico che impatta su un’intera collettività e la sua economia, la propensione al risparmio del cittadino comune cresce esponenzialmente. La domanda di mercato tende a circoscriversi ai beni essenziali, tagliando spese superflue, a cominciare dai beni di lusso. Naturalmente si tratta di comportamenti che possono divergere per una serie di variabili, in primis dalle fasce di reddito. Il trend generale, tuttavia, finisce per penalizzare gli acquisti che possono essere rinviati, se non cancellati. La pandemia, con la drastica riduzione delle relazioni sociali, ha fatto il resto. La crisi economica, innescata da motivi di salute pubblica, finisce per innescare meccanismi di reazione a catena, Un esempio, che è al tempo stesso un simbolo delle difficoltà dell’oreficeria: la cancellazione del classico appuntamento di inizio anno a Fiera Vicenza. Napoli e la Campania, purtroppo, sono messi ancora peggio. Per ragioni storiche e strutturali, oltre che economiche. Il polo orafo campano ha sede prevalentemente nell’area partenopea e casertana. Rappresenta una realtà di grandissimo valore. Tra antico Borgo degli Orefici di Napoli, Torre del Greco e Tarì di Marcianise, sono circa 2300 le imprese di produzione, ingrosso e commercio. Il distretto orafo campano è specializzato nella lavorazione, da un lato, dell’oro e dell’argento e, dall’altro, del corallo e del cammeo. Il core business è rappresentato dalla realizzazione di prodotti di alta qualità con pietre preziose e gemme naturali, frutto in molti casi di una lavorazione ancora fortemente artigianale. La criticità maggiore, anche in epoca pre Covid, è risultata la dimensione delle aziende. E’ molto ridotta. La media è di tre addetti. Il modello piccola-micro impresa determina condizionamenti oggettivi: i prodotti sono principalmente destinati al mercato nazionale, pur se molti laboratori lavorano su commissione di grandi gioiellieri italiani e internazionali. Questa peculiarità ha fino al 2019 impedito al polo napoletano casertano di poter sviluppare fatturati e volumi produttivi paragonabili a quelli dei tre centri egemoni dell’oreficeria e della gioielleria nazionale: Valenza Po, Vicenza e Arezzo. Ciò pur in presenza di una tradizione locale millenaria, che risale alla Pompei sommersa dal Vesuvio e si proietta ancora più lontano nel tempo. Una tradizione che si è tramandata di generazione in generazione e che consente ancora oggi alle creazioni dei maestri artigiani locali di non avere assolutamente nulla da invidiare ai prodotti di altre aree dell’Italia e del mondo. Il problema non è di prodotto ma di marketing e di commercializzazione. Mancano livelli di internazionalizzazione paragonabili a quelli degli altri tre poli dell’oreficeria made in Italy. A giocare contro, sotto questo aspetto, è stata anche una decennale condizione di dipendenza produttiva di tante micro imprese napoletane, terziste e quindi impossibilitate a sviluppare appieno il proprio valore aggiunto. Il Covid 19 ha finito per colpire ancora più duramente l’oreficeria campana, rispetto a quanto non abbia già fatto su scala nazionale. La polverizzazione delle aziende locali, la limitatezza dei mercati di sbocco, la stessa scarsa digitalizzazione hanno pesato non poco nell’aggravare un impatto di per sé molto pesante, per i motivi già indicati. Va purtroppo sottolineato come le istituzioni poco abbiano fatto perché questa catastrofe economica venisse contenuta da misure adeguate. Sussidi e ristori, a fronte del “bagno di sangue” verificatosi, hanno avuto la parvenza della classica goccia nel mare. Il problema maggiore è nato probabilmente dalla mancanza di determinazione nel legislatore, che non ha saputo o voluto selezionare gli interventi in modo da venire incontro innanzitutto a comparti come quelli del lusso e come lo stesso turismo, per evidenti motivi molto più danneggiati di altri dalla crisi pandemica. L’auspicio è che una svolta possa ancora verificarsi in questo ultimo periodo di zone rosse ed arancioni, che dovrebbe preludere a una graduale riapertura. Si dovrebbe procedere con misure mirate e incisive come la decontribuzione per un lungo lasso di tempo, agevolazioni rilevanti per la formazione dei nuovi quadri, laddove purtroppo si ha difficoltà a trovare giovani che consentano il ricambio generazionale degli antichi maestri della professione. La maggiore corposità dei sostegni sarebbe giustificata anche dalla considerazione che la ripartenza della domanda e la ripresa degli abituali standard di fatturato sarà ritardata, rispetto ad altre attività, per le stesse ragioni che hanno reso più grave il crollo delle vendite. I beni di lusso, gioielli e preziosi in testa, saranno inevitabilmente gli ultimi a tornare a essere richiesti nei volumi precedenti il cigno nero Covid. Malgrado queste enormi difficoltà, non mancano elementi per sperare. Anche per il rilancio del polo di Napoli e Caserta. Se il piano di ripresa e resilienza nazionale assicurerà nei fatti, e non solo nelle enunciazioni, quel recupero considerevole del divario socio territoriale che figura tra i suoi principali obiettivi, si porranno le basi per una nuova forte fase espansiva dell’economia del Mezzogiorno e dell’intero Paese. In tale contesto le imprese orafe locali dovranno sfruttare ogni possibilità, anche quelle paradossalmente indotte dal distanziamento sociale, per fare un salto di qualità in grado di avvicinarle ai livelli di redditività e di globalizzazione delle imprese nazionali leader di settore. L’abitudine forzata a pratiche di smart working può avere accelerato processi riorganizzativi già suggeriti dall’evoluzione tecnologica. La chiusura degli spazi ‘fisici’ di mercato (fiere, esposizioni, ma anche gioiellerie serrate dal lockdown) può avere indotto o può ancora indurre molti operatori a sviluppare finalmente il canale e-commerce. La crescita, l’innovazione, l’internazionalizzazione, possono anche essere favorite da un virus. Forse basta avere il coraggio imprenditoriale per dimostrarlo.

*Direttore Centro Studi Lepre Group