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Obama e l’agenda delle sfide globali

Opinionista: 

«Sono davanti a voi per l’ultima volta». Con queste parole Barack Obama ha preso congedo da tutti i rappresentanti delle nazioni riuniti in assemblea nella sede dell’Onu. Il primo presidente afro-americano nella storia degli Usa ha rivendicato con orgoglio i successi e i progressi intervenuti durante il suo mandato. Ma non ha nascosto le difficoltà e i problemi incontrati e non tutti risolti. Primo fra tutti la crisi finanziaria del 2008, non sempre domata e tuttavia ricondotta nei limiti di una turbolenza che non ha evitato la crescita, la vera valvola di sicurezza del sistema economico-sociale nordamericano. Obama ha poi ribadito con forza la scelta della lotta contro ogni forma di razzismo, alimentato dal fondamentalismo e dalla falsa idea della superiorità della razza bianca. Se c’è stato un motivo ricorrente nell’azione e nel pensiero di Obama, questo è stato il principio di tolleranza e di accoglienza e la ripulsa di ogni fondamentalismo e di ogni errata idea di supremazia di un credo religioso su un altro. E poi: la globalizzazione non va demonizzata, ma va certamente corretta, nel senso di una visione globale dei problemi e delle soluzioni più adeguate. E la soluzione per risolvere i drammi dell’immigrazione non è – con chiaro riferimento a Trump – la costruzione di muri e di barriere. Non a torto, visti questi contenuti, il discorso di Obama è stato definito “storico” e non solo perché è uno degli ultimi nella sua funzione di presidente. Fino all’ultimo Obama non ha voluto rinunciare alle sue idee di democrazia sociale avanzata, senza per questo apparire come eversore del sistema. «Le economie funzionano meglio – ha detto il presidente – se si riduce il gap fra i salari, tra ricchi e poveri. L’obiettivo non è punire i ricchi ma rendere più equa la società e prevenire nuove crisi». E le crisi, ed anche le ribellioni, covano sempre sotto la cenere, in un mondo, ha detto Obama, in cui l’1% della popolazione mondiale controlla e eguaglia la ricchezza dell’altro 99%. Rivolgendosi poi a Putin, Obama ha ribadito con forza che ai tanti motivi e alle tante cause della crisi che sta attraversando il mondo intero non giova certo l’acuirsi di uno scontro sempre più evidente tra l’idea e la pratica della democrazia e i “modelli di società guidate dall’alto”. Le conseguenze delle politiche economiche sbagliate a danno dei ceti più deboli ed emarginati, ma anche della mancanza di una linea unitaria per fronteggiare il dramma di milioni di persone che fuggono dalla guerra e dalla fame, l’incapacità di risolvere la crisi della Siria drammaticamente divenuta oggetto di insanabili conflitti di interessi imperialistici in campo, la costruzione di muri e barriere, non hanno come risultato se non il rafforzamento dei gruppi terroristici e dell’Isis. Ma ciò che mi ha maggiormente colpito nel discorso di Obama sono stati il tono e l’impostazione generale: non un discorso trionfalistico, non una retorica elencazione di successi, ma una sorta di agenda per coloro che verranno dopo, un vero e proprio vademecum di problemi che caratterizzano questo passaggio di fase. E tra questi spiccano, da un lato, il monito a difendere la democrazia, i suoi valori e la sua prassi, a fronteggiare l’ondata di populismi che attraversa il mondo in ogni latitudine e l’idea che tutto possa rimettersi in ordine se il governo è nelle mani di uno solo, di un Cesare che sia in grado di risolvere i problemi senza l’impaccio di parlamenti e contropoteri sociali; dall’altro, l’indicazione di un percorso serio e credibile per affrontare e risolvere le negative conseguenze della globalizzazione economica. Forse è questo il problema dei problemi, ed è paradossale che esso venga denunciato da Obama come da Renzi, da Merkel come da Hollande e che per esso, come una litania, si indichi, come mezzo per fronteggiarlo, la crescita economica, la lotta alla povertà e la fine delle politiche recessive. Ma tutto resta solo enunciato e mai realizzato e nessuno ha avuto finora il coraggio – e in verità neanche Obama – di mettere in moto un meccanismo simile (e comunque necessariamente aggiornato) al New Deal degli anni 30.