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Quale sarà il futuro in un paese di “ciucci”?

Opinionista: 

Siamo un popolo di anticonformisti. Dappertutto, nel mondo sviluppato, si parla di economia della conoscenza. Noi, invece,rischiamo di diventare un paese di “ciucci”. La laurea, si dice, è un pezzo di carta. Ed è vero che un diplomato, o un autodidatta senza titoli di studio, può dare lezioni a tanti in possesso della famosa pergamena. Ma queste sono le eccezioni. Diversi studi, compreso quello recente di Fadi Hassan del Trinity College, dimostrano come in Italia le imprese più competitive siano quelle che maggiormente si avvalgono di laureati. Il problema è che sono poche. La regola degli altri è sottopagare, disincentivare, preferire il precario poco formato alla risorsa umana qualificata, scegliere sempre e comunque il contratto a termine (che pure, sia chiaro, è utile e necessario in tanti casi!), senza credere nell’investimento nel capitale umano. Il salario medio d’ingresso di un laureato triennale è passato dai milletrecento euro del 2007 ai mille del 2012. E’ così dappertutto in Europa e nel mondo? Assolutamente no! Ed è il motivo per cui moltissimi giovani laureati varcano i patri confini. L’altra faccia della medaglia è l’abbandono del percorso di studi. Il 45% di chi comincia un corso non lo conclude. Siamo tra i messi peggio in Europa. Ma il dato più grave riguarda l’incidenza percentuale dei laureati nella fascia di popolazione tra i 25 e i 34 anni: quella destinata a formare la nuova classe dirigente. In Italia, ultima nel vecchio continente, sono appena il 24,2%, contro una media Ue a 27 del 37,3%. Nel Regno Unito sono il 45,8%, in Francia il 44,8%, in Spagna il 41,5%. Per anni si è giustamente sottolineata l’importanza della crescita della ricerca e dell’innovazione per fronteggiare la concorrenza delle imprese dei Paesi di nuova industrializzazione, basata in primo luogo su un basso costo del lavoro. Per riposizionare l’Italia sul mercato internazionale del lavoro, tuttavia, sarebbe servito fare esattamente l’opposto di quello che si è fatto. Lo Stato, così come le imprese, avrebbero dovuto scommettere su produzioni e servizi a maggiore valore aggiunto, puntare sull’innovazione radicale, favorire la qualificazione del lavoro e quindi la meritocrazia. Non so se siamo ancora in tempo per ravvederci. Forse sì, ma bisogna ritrovare il coraggio di credere al futuro. Di investire, nel pubblico come nel privato, senza continuare a lucrare su rendite di posizione che si fanno sempre più esigue. A misura di un Paese in progressivo declino.