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Quei vecchi simboli senza idealità

Opinionista: 

La lotta per i vecchi simboli della politica sembra non conoscere fine. Si tratta, ormai, di strumenti arrugginiti, di realtà antiche senza più un vero appeal, di percentuali di attrazione legati a semplici nostalgici. Eppure, un po’ dovunque, si battaglia, si lotta, ci si divide per quell’eredità che seduce sempre meno. Certo in qualche occasione, al di là del simbolo, c’è anche qualche gruzzolo economico da spartire e la sensazione di fondo è che la vera battaglia risieda soprattutto lì, lontana da qualsiasi, reale idealità. È stato così, per certi versi, anche in questo lungo week end, al Midas a Roma, per l’assemblea della Fondazione di Alleanza Nazionale. Era, forse, un’occasione per ricucire tanti strappi del passato, per evitare laceranti regolamenti di conti tra il vecchio e il nuovo che, faticosamente, avanza, per rimettere sui binari un soggetto politico comune indispensabile per le dinamiche di una destra che vuole essere ancora competitiva. L’intesa sembrava a portata di mano, vicina anzi, vicinissima. Poi, tutto è finito in cavalleria, si è sviluppata una feroce caccia al voto, si è rivisto il gioco dei veti incrociati e Giorgia Meloni ha avuto la meglio, anticipando, a scrutinio concluso, l’ingiunzione di sfratto per i suoi oppositori . Morale: tanto rumore per nulla. La gloriosa Fiamma resta a chi l’aveva (Fratelli d’Italia ), i vecchi colonnelli della Destra Nazionale (Fini compreso) tornano prepotentemente nell’ombra e sul piccolo tesoro di Alleanza Nazionale è normale che si prepari una legione di avvocati pronti allo scontro, con relativo corredo di carte bollate. Non andò meglio al glorioso Scudo Crociato, simbolo storico della Democrazia Cristiana. Un confronto aspro che vedrà la nascita del Partito Popolare Italiano, del Ccd di Casini, del Cdu di Buttiglione e di cento altre sigle che proveranno a dividersi sull’eredità culturale e storica del partito di Luigi Sturzo ma, soprattutto, sull’ utilizzo di un marchio che troverà, in quegli anni, diverse e svariate stilizzazioni. Così come lo stesso Partito Socialista visse la sua diaspora a metà degli anni novanta, dividendosi tra la proprietà della sigla PSI che, alla fine, spettò al gruppo di Nencini e l’uso del garofano affidato al sindacalista Saverio Zavettieri. Un po’ dovunque, quando si litiga, quando volano gli stracci, la battaglia sul simbolo diviene, quindi, parte integrante del conflitto. Ma in una società dell’immagine come la nostra, che ha nel marchio uno degli asset fondamentali della propria riconoscibilità, tutto si macera con assoluta rapidità. Bastano pochi mesi per conquistare l’oblio e i simboli dei partiti non sfuggono a questa regola. Da qui, il costante restyling che ha visto nascere e morire, negli anni duemila, centinaia di loghi. C’è da pensare, insomma, che, più prosaicamente, siano le casseforti del partito il cuore dello scontro politico. Risparmi custoditi nel tempo, immobili che, per una classe politica in chiara crisi economica, rappresentano una rara ancora di salvataggio. Poi ci sono le idealità, certo, ma per quelle, invero piuttosto appannate, sarà opportuno discuterne in un’altra puntata.