Accessibilità:
-A A +A
Print Friendly, PDF & Email

Quella del dopoguerra era un’Italia diversa

Opinionista: 

Si dice: ci siamo risollevati, e alla grande, dalla tragica situazione che si era determinata nel nostro paese dopo la seconda guerra mondiale; ci risolleveremo anche dalle disastrose condizioni provocate dal Coronavirus. Lo ha detto anche Sergio Mattarella nel discorso pronunciato in occasione della festa della Repubblica (ma la sua ci è apparsa più come una esortazione che come un’affermazione). Non vorremmo esser tacciati di eccessivo pessimismo (e forse anche di essere portatori di iettatura) né di essere, in via pregiudiziale, nostalgici del tempo che fu (accusa questa ricorrente per chi raggiunge la mia non più giovane età), ma ci sia consentito di nutrire qualche riserva su questa pur auspicabile rinascita, sui suoi tempi e sulle sue modalità. Ad alimentare le nostre perplessità concorrono motivazioni che potremmo definire di ordine soggettivo e oggettivo. Le prime, che sono forse le più importanti, concernono una sorta di mutazione genetica che si è determinata nel carattere e nel temperamento degli italiani. Tra gli italiani del dopoguerra e gli italiani di oggi esistono differenze profonde. I primi erano animati da uno slancio vitale che fu alla base del miracolo economico, pervasi dall’ansia del fare, con giovani protesi alla ricerca di una loro collocazione, in una società che si andava profondamente evolvendo. Le condizioni attuali dei nostri concittadini sono radicalmente diversa. Partono da uno stato di benessere che nulla ha a che vedere con la miseria largamente diffusa in tutta la penisola dopo la conclusione del conflitto. Ora, anche se le statistiche ci avvertono che si stanno creando in numero crescente nuove sacche di povertà, c’è, comunque, uno stato di benessere che nel dopoguerra non c’era. Ciò ha determinato nuovi comportamenti, nuove abitudini (non è un caso che la nostra sia stata etichettata come un società consumistica). Ecco perché è del tutto improponibile una equiparazione tra l’Italia di allora e l’Italia di adesso, con tutte le conseguenze che da questo stato di cose derivano. Senza contare l’incidenza che indubbiamente ha il notevole cambiamento dell’età della popolazione. Forse è eccessivo, come qualcuno fa, parlare di un’Italia gerontocratica, ma è fuor di dubbio che l’invecchiamento c’è stato e ha avuto dimensioni notevoli: dal censimento del 1951 risultava che la metà dei residenti in Italia aveva meno di trent’anni, mentre oggi gli under trenta sono meno del 9 per cento. Si è determinata, insomma, una sorta di rivoluzione copernicana alla quale, come i fatti stanno ampiamente dimostrando, concorre – ecco il secondo aspetto della questione – la divaricazione tra lo Stato centrale e le Regioni. Quando, dopo la guerra, si trovò a dover affrontare il gigantesco problema della ricostruzione, il nostro paese, pur nella differenziazione tra le forze politiche, presentava un volto sostanzialmente unitario. La Nazione, tutta intere, era protesa in uno sforzo comune che oggi si stenta a individuare. Non v’è dubbio che l’introduzione dell’istituto regionale abbia recato, in alcuni casi, non indifferenti vantaggi, ma è altrettanto innegabile che - lo rivelano le polemiche che si stanno sviluppando a margine della vicenda Coronavirus – il regionalismo abbia innescato un conflitto che mal si concilia con lo spirito che dovrebbe caratterizzare l’impegno degli italiani in questa delicata fase della vita comune. Non si può, dunque, non nutrire più di una perplessità quando si sente dire, forse con eccessivo ottimismo, che il “miracolo” che l’Italia riuscì a compiere tra la seconda parte degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta potrà essere rinnovato nel dopo pandemia. Facciamo attenzione a non creare illusioni.