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Terremoto e fallimento, Zingaretti saluta e se ne va

Opinionista: 

Il big bang draghiano colpisce ancora. Dopo la crisi grillina tocca a Zingaretti. Le dimissioni del segretario Pd sono la logica conseguenza di mesi trascorsi a elogiare Conte e a difenderlo a tutti i costi. Un atteggiamento che se poteva avere un senso durante la crisi del Governo giallorosso, successivamente ha assunto tratti autolesionistici. Fino a giungere al suicidio politico di ieri. Il vedovo inconsolabile di “Giuseppi” si è progressivamente consumato nella difesa di colui che pur si vedeva chiaramente che sarebbe stato un concorrente forte nella conquista degli stessi voti del bacino dem. Con Conte leader, infatti, i Cinque Stelle non vanno incontro all’ennesimo cambio di pelle o a una nuova giravolta per non morire, ma fanno nascere qualcosa che con il vecchio M5S nulla ha a che fare. Tranne che per la confusione, l’unica cosa che davvero accomuna il vecchio e il nuovo partito. Al punto che Luigi Di Maio ha definito la nuova formazione «liberale e moderata», mentre lo stesso Conte la vede «populista» e «gentile». È evidente che né l’uno né l’altro sanno di cosa parlano. Il nuovo partito, spiegano infatti gli esegeti dell’Elevato, sarà saldamente nel campo del centrosinistra. Sorprende che Zingaretti non abbia capito quello che stava accadendo. Dopo aver definito Conte «un punto di riferimento fortissimo dei progressisti», il Pd si è incredibilmente incartato. Chiuso in un’autoreferenzalità sfociata nell’immobilismo onanistico delle ultime settimane, l’unica cosa che poteva proliferare erano tensioni e divisioni. Dai sindaci alle donne, dalle correnti ai territori, è stata tutta una sequela di attacchi, accuse, recriminazioni e posizionamenti tattici convergenti nell’abbattersi su una leadership ormai barricata in un fortino assediato. Da questo punto di vista l’epilogo di ieri può sorprendere per la tempistica, non certo per l’esito. Si conclude una lunga lotta di potere in un partito dilaniato in 7 correnti nel quale, per dirla con le durissime parole scelte dallo stesso Zingaretti per annunciare l’addio, «si parla solo di poltrone». Le dimissioni, infatti, giungono dopo settimane di guerriglia interna lunga e logorante. Tuttavia, non tutta la colpa può essere addossata al duo Bettini&Zingaretti, né si può pensare che la sola uscita di scena del leader risolva i problemi dei dem. Al Nazareno sono in molti ad essere ancora convinti di poter assorbire in qualche modo i 5 Stelle, senza rendersi conto che invece rischiano che accada il contrario: Conte, dando vita alla morte del vecchio M5S e trasformandolo in un partito tendente a un progressismo verde-moderato (qualsiasi cosa voglia dire), inevitabilmente finirà per diventare il nemico numero uno del Pd. L’obiettivo di una tale forza politica, infatti, è andare a pescare dentro lo stesso bacino elettorale dei democratici. Ancor più dei sondaggi che già segnalano il crollo dei dem, lo conferma la clamorosa richiesta di far entrare M5S nel gruppo socialista in Europa. E la freddezza e l’esitazione con cui il Pd - anche quello di rito zingarettiano - ha accolto l’ipotesi che ciò possa accadere, indica che in fondo pure tra le sbandate schiere dell’ormai ex segretario c’è qualcuno che la bussola non l’ha ancora persa del tutto. È chiaro che M5S e Pd finiranno a competere per la conquista dello stesso elettorato. Nessuno dei due partiti, per ragioni diverse, è oggi in grado di allargare i confini della cosa giallorossa. Nell’attesa di capire se quelle di Zingaretti sono dimissioni vere o solo una mossa tattica, fin d’ora è chiaro il bivio davanti al quale si trova il Pd: darsi un nuovo profilo riformista diverso dal renzismo che fu, o arrendersi all’alleanza competitiva con M5S. Rischiando di pagare in entrambi i casi un prezzo elettorale. È il fallimento di un intero gruppo dirigente.