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Torna il salario minimo, eterna illusione statalista

Opinionista: 

Un gigantesco equivoco. Tanto per cambiare, la politica italiana si alimenta di tali dispute e il salario minimo non fa certo eccezione. Stavolta, a far andare in brodo di giuggiole la sinistra è stato il primo ok dell’Europarlamento alla direttiva europea sull’argomento. I compagni la raccontano come l’obbligo a tendere verso un salario minimo europeo, ma le cose non stanno affatto così. La direttiva, invece, punta a spingere la contrattazione collettiva nelle Nazioni che la ignorano o, peggio, la sabotano; non certo a creare un utopico “salario unico europeo”, come invece tenta di far credere il nuovo Ulivo targato Pd-M5S-Leu con l’aggiunta della Cgil, al confine tra demagogia politica e analfabetismo economico. Certe cose vanno maneggiate con cura. Agire sul salario minimo (che in Italia già esiste ed è definito dai minimi contrattuali) è un’operazione che ha conseguenze, e in quanto tale va quindi valutata nella sua complessità. I suoi sostenitori assicurano che l’aumento del minimo retributivo ha un effetto positivo sull’economia in quanto consente a chi ne beneficia di acquistare più beni. Un’argomentazione giusta, ma illusoria. Perché in un regime di libero mercato, quando l’aumento dei salari non deriva da un incremento della produttività, bensì dalla redistribuzione della ricchezza, nemmeno i consumi aumentano. Semplicemente, si verificherà una redistribuzione degli stessi consumi. Tradotto: a parità di ricchezza totale, se c’è qualcuno che spende di più c’è anche qualcuno che spende di meno. Perché l’aumento del minimo salariale per legge questo è: redistribuzione, non creazione di ricchezza. Inoltre, i maggiori costi per le imprese si tradurrebbero, nella migliore delle ipotesi, in minori assunzioni (e prezzi più alti). Le aziende, infatti, tenderebbero a tagliare altri costi per mantenere i profitti. Quanto più si alzerà il minimo salariale, tanto peggiori saranno le conseguenze in termini di posti di lavoro persi. Lo prova il fatto che gli stessi sostenitori della norma non vanno mai oltre la richiesta di 9 euro l’ora perché ne conoscono gli effetti regressivi sull’occupazione: altrimenti perché non aumentare il minimo a 20 euro? Ci sono varie Nazioni in Europa che non applicano la contrattazione collettiva e in tal modo tengono schiacciate le retribuzioni. È questo ciò che chiede di cambiare la direttiva Ue: è evidente che se Bruxelles riuscirà a costringere tutti gli Stati membri a introdurre questo regime contrattuale, avremo un aumento dei vari costi del lavoro che ridurrà in parte i differenziali tra Paesi. In questo senso la direttiva favorisce un minore dumping salariale che tanti danni arreca ai lavoratori italiani. È incredibile come a sinistra ci sia chi pensa che alzare il costo del lavoro - perché è di questo che stiamo parlando - possa essere il mezzo per aumentare redditività e valore aggiunto. Se così fosse, dovremmo essere i campioni mondiali della produttività, visto l’altissimo livello del nostro costo del lavoro. Succede invece l’opposto: siamo ultimi tra gli ultimi. Il punto, allora, è fare avanzare il sistema economico verso produzioni a maggior valore aggiunto e aumentare la produttività; saranno queste condizioni a generare l’aumento dei salari. Allo stesso tempo, andrebbe ripensato il sistema di contrattazione collettiva per adeguare le regole sui minimi retributivi alla dinamica produttiva delle imprese. In un contesto di scarsa occupazione, invece, pensare che il dramma di bassi redditi da lavoro possa essere risolto con l’introduzione di un salario minimo è ridicolo. Il vero problema, invece, è ancora una volta il lavoro che manca. Sono stati infatti la disoccupazione e la sottoccupazione (per esempio, il part-time involontario) ad aver fatto crollare il reddito da lavoro, non la dinamica delle retribuzioni. Ma alla politica fa più comodo raccontare che il problema si risolve varando una legge. Il lavoro non si crea per legge. E neanche il salario.