L’emozione non ha voce, cantava Adriano Celentano qualche tempo fa. Ed è la stessa sensazione di afasia che si prova alla mostra in corso nella Cappella Palatina di Castel Nuovo, o Maschio Angioino che dir si voglia: “La scuola di Posillipo. La luce di Napoli che conquistò il mondo” a cura di Isabella Valente visibile fino al 2 ottobre, nell’ambito di Estate a Napoli. Settantaquattro dipinti per raccontare un secolo di arte a Napoli: dalla di pittura di paesaggio en plein air, inaugurata dall’olandese Pitloo, a quella di macchia della Scuola di Resina passando per il dipinto di impronta verista che trova la sua espressione più eloquente nell’opera di Filippo Palizzi. L’emozione non ha voce perché qui prevale lo sguardo che si sposta su quei dipinti per rintracciare nelle immagini della Napoli che era, le radici della Napoli che è. Il Golfo è sempre quello, con la sua costa ben definita su cui domina il Vesuvio, gigante solitario dalle pendici dolcemente declinanti sul mare: però ha un pennacchio di fumo a ricordare, anche a chi lo osservava da lontano, che era un vulcano attivo. Il che risulta ancora più inquietante quando veniva ritratto in nottuna: allora la vetta emette bagliori rossastri e sembra la porta dell’inferno. Il verde però non c’è più, né sulle colline di Posillipo e del Vomero, né a Mergellina e a Santa Lucia: qui il mare lambiva una spiaggia dorata, animata dal lavoro dei pescatori, su cui si affacciavano eleganti palazzi neoclassici, lì era tutto un trionfo di vegetazione su cui si scorgeva a malapena qualche casale e, inconfondibile, la mole di Castel Sant’Elmo.   34 Quintilio Michetti, Mergellina, colleizone privata.jpgL’emozione non ha voce perché prende il sopravvento sull’esperienza dell’osservatore, soprattutto se napoletano, e si trasforma in nostalgia di un’armonia perduta per sempre: dove è finita quella città d’incanto? Il cemento pare averla sopraffatta, invadendola con edifici senz’anima, dalle linee squadrate e prepotenti. La spiaggia ha lasciato il posto ad una strada lunghissima che si vanta di essere “il più bel lungomare del mondo”, ma che nulla conserva della sinuosità naturale e della ricchezza umana che quei dipinti raccontano così bene. Però, poi, l’emozione diventa meraviglia: perché, gettando l’occhio oltre il portale della Cappella Palatina, scopre che la luce è rimasta la stessa. Il cielo ha ancora quella tessitura di azzurro caldo, pronto a lasciarsi percorrere da vapori rosati e dorati, che incantavano i pittori del nord Europa che si sforzavano di riprodurli sulle loro tele. Sì, è la luce il trait d’union tra la città di un tempo e quella di oggi, una luce profondamente reale ma anche capace di sciogliere il sentimento in un afflato lirico, in una dimensione di intima adesione al bello che, trapassando lo sguardo, arriva all’anima. È la luce ad accomunare la ricerca pittorica degli artisti, appartengano essi agli inizi o alla fine del diciannovesimo secolo, siano essi partenopei o no, si chiamino Giacinto Gigante o Salvatore Fergola, lavorino su tela o su carta, dipingano con oli, tempera e acquerello, o disegnino con la grafite, il lapis e la china. Quanto amore per questa terra, quanta umiltà in questa ripetizione ostinata di moduli e soggetti, quanto stupore nello scoprire di volta in volta il nuovo nel noto: erano innanzitutto artisti dello sguardo, che sapevano catturare il momento con la padronanza assoluta del disegno e del colore. Artisti di occhio, mani e cuore. Come non ce ne sono più.