Una vicenda cruda e crudele quella che Maurizio Ponticello ricostruisce nel romanzo “La vera storia di Martia Basile” (Mondadori). La protagonista è una ragazzina appena dodicenne che viene data in moglie a un uomo che ha già superato il mezzo secolo. Una sposabambina insomma: cinquecento anni fa era una consuetudine diffusa e accettata dalla società di quell’Europa che si autoproclamava civile e che definiva inferiori le popolazioni che aveva appena scoperto al di là dell'Oceano. Siamo nella Napoli vicereale, alla fine di quel tormentatissimo Sedicesimo secolo che aveva visto la nascita del Protestantesimo e il conseguente arroccamento della Chiesa Cattolica nella difesa delle sue posizioni che manteneva attraverso l’azione feroce dell'Inquisizione.

Uno sfondo inquietante per una storia di costante sopraffazione maschile, come ce n’erano tante a quei tempi, e come, purtroppo, ce ne sono ancora numerose in moltissime parti del mondo. La violenza e il sangue sono all’ordine del giorno in una città che vive di traffici e di rendite di posizione, in cui la nobiltà locale, umiliata dal dominio spagnolo, non trova altro di meglio da fare che sfogarsi con i più deboli. Proprio come fa don Muzio Guarnieri che, senza alcun riguardo per la sua giovanissima moglie, prima la vìola con un sesso senza tenerezza, poi la colpisce ripetutamente con rabbia crescente e infine la cede alle voglie del governatore di turno. È un uomo che conosce solo la legge del possesso: dispone di tutto e di tutti senza ammettere repliche. Ma molto presto resterà vittima del suo stesso delirio di onnipotenza nei confronti della consorte. E sarà proprio Martia a infliggergli il colpo mortale in un viricidio tanto inaspettato quanto determinato. È una forza d’animo insospettata quella che la giovane donna scopre in se stessa e che impara a gestire con circospezione.

Ed è questa consapevolezza crescente delle proprie possibilità a renderla a poco più di vent'anni donna di proverbiale bellezza e sfrontatezza seducente. Martia Basile è una donna realmente esistita, la cui memoria è stata tramandata dal poemetto di un cantastorie, Giovanni della Carretola, che probabilmente assistette alla sua decapitazione. Maurizio Ponticello è partito da questo dato per cominciare le sue ricerche d'’archivio che lo hanno condotto a trovare la confessione di stregoneria rilasciata da Martia ai Bianchi della Giustizia, i sacerdoti che assistevano i condannati a morte nelle ultime ore di vita. Intorno alle notizie ricavate dalle fonti poi ha provato a costruire una vicenda corale, colmando i vuoti temporali lasciati dalle cronache e immaginando il complicato sviluppo di una personalità indipendente all’interno di una società che alla donna guardava con sospetto, ritenendola espressione di potenze diaboliche.

È nato così un romanzo al respiro ampio che, da un lato, segue la triste storia della sposa-bambina, dall’altro, immerge il lettore nell’atmosfera vitale e dannata della Napoli di fine Cinquecento. È una realtà fantasmagorica in cui il sangue si mescola con lo sperma, i canti degli oranti con le imprecazioni della folla, la baldanza dei guerrieri con la vigliaccheria degli amanti. La confusione è la cifra di quella città cresciuta su se stessa in un labirinto di vicoli impervi e slarghi affollati. È Napoli, con la sua ambiguità, la vera protagonista della narrazione. Tant'è, che arrivati all'ultima pagina, si finisce col chiedersi dove sia la verità. L’ingiustizia subita da Martia è da imputare esclusivamente alla violenza laida del marito? Oppure è il frutto di una mentalità condivisa che considerava l'inferiorità femminile come un indiscutibile dato oggettivo? A ben vedere sono gli stessi interrogativi che ci poniamo oggi, davanti a un femminicidio. E non è confortante scoprire analogie con quei tempi così inquieti.