Nel 1845 - cioè 40 anni prima della legge Berti, che nel 1886 introduceva per la prima volta nella legislazione italiana  norme a tutela dei lavoratori minorenni - il Regolamento per le miniere di ferro dei Reali stabilimenti di Mongiana già fissava il limite di 14 anni minimo per l’accesso al lavoro,  stabilendo in 8 ore la giornata lavorativa ed escludendo i minori da attività pericolose o pesanti. Ispirato dalla logica militare borbonica, che dirigeva il ciclo produttivo in quella che era la più grande industria statale pre-unitaria, il regolamento si innestava sulla tradizione esistente, fortemente influenzata dalla spiritualità dei monaci eremiti giunti dall’Oriente molti secoli prima. Essi avevano inculcato nelle popolazioni una mentalità lontana dalla logica del profitto, basata su una concezione del lavoro considerato come mezzo, mai come fine. Il fine era l’uomo, la cui realizzazione si fondava nella possibilità di vivere, nutrirsi, ed ottenere le cose necessarie al compimento della sua missione nel mondo, vivendo in armonia con il creato. Il luogo di lavoro era dunque pensato come un luogo in cui la fatica diventa un mezzo di santificazione dell’uomo, che rende lode a Dio ed a Lui offre il proprio sudore. Nessuno meglio dei monaci eremiti aveva potuto insegnare con l’esempio questa verità fondamentale alle popolazioni calabresi della “Valle Santa” intrecciando lavoro e preghiera, coniugando semplicità e raffinatezza nella capacità di cogliere il trascendente nelle pieghe del quotidiano, trasformando il ferro rude in oggetti di utilità, le ginestre in abiti e coperte per vincere il freddo, la resina in pece, la terra aspra in spighe di comunione fraterna. Non si perseguiva il profitto, ma la “dignitosa povertà”, ossia una povertà senza miseria, nella consapevolezza che è la nudità a segnare l’alfa e l’omega di ciascun uomo, chiamato a vivere la propria dignità di creatura senza appropriarsi di nulla che non gli sia dato dal Creatore, come avrebbe mostrato, qualche tempo dopo, Francesco d’Assisi. Fu questo il modello che ispirò la concezione del lavoro dei sovrani borbonici, era ciò che la Chiesa e la dottrina sociale cattolica avevano sempre insegnato e promosso per lo sviluppo integrale della persona: la presenza del luogo di preghiera negli stabilimenti industriali del Regno scandiva i ritmi della giornata lavorativa e del riposo, nutrendo lo spirito e promuovendo l’uomo nella sua integralità. A fine ’800, l’opzione capitalistica della grande industria italiana mise a nudo - con l’inchiesta sulla Sicilia dei deputati Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino - lo scenario raccapricciante dei “carusi”: bambini di 7-8 anni, la cui conformazione fisica ben si prestava all’impiego negli stretti cunicoli delle miniere di zolfo. L’Italia unitaria e la grande industria capitalistica avevano abbracciato il modello liberale inglese: l’accumulo di ricchezza ed il profitto come obiettivi da realizzare a qualunque costo. Non c’era spazio per preoccuparsi della riduzione in schiavitù dell’uomo fin dalla tenera età, e meno che mai delle sue aspirazioni spirituali.

*Università Federico II