«Senza Napoli è impossibile comprendere la vita e l’arte di questo artista». Così scrive Jean-Loup Champion nel catalogo della mostra “Gemito, dalla scultura al disegno”, esposta al museo di Capodimonte fino al 15 novembre prossimo. In effetti, la stessa sopravvivenza del piccolo Gemito fu resa possibile dall’esistenza, a Napoli, della Ruota dell’Annunziata, che, dal Trecento, veniva usata da quelle mamme che, non potendo tenere con sé il figlio, lo mettevano, in stretto incognito, in una ruota. Era una sorta di tamburo rotante: suonava un campanello, la ruota veniva girata, e il piccolo era preso in braccio dalle monache della Congregazione della Santissima Annunziata. Così fu per il piccolo Vincenzo, adottato da Giuseppina Baratta e dal marito Giuseppe Bes. La Ruota, nata nel Trecento con gli Angioini per evitare abbandoni e aborti, poi sostenuta dal popolo napoletano e infine dai Re Borbone, il 22 giugno 1875, con l’Unità d’Italia, fu abolita. Questa abolizione fu uno dei tanti episodi del cambiamento epocale che sconquassò Napoli, dopo sei secoli non più capitale. Peraltro, l’arte di Gemito affonda le sue radici nella storia antichissima di un popolo coeso, unito dalla stessa fede e dalla stessa lingua, che anche i re Borbone quotidianamente parlavano. Ma, con il governo piemontese, molti, venuti dal Nord, parlavano un incomprensibile linguaggio e la  Regina Margherita di Savoia, torinese, ancora scriveva in francese alle amiche. È anche vero che la figura di Gemito è legata all’immagine di una città che - su un ampio golfo di mare che la curva dell’orizzonte non chiude - suggerisce il respiro della libertà. E l’arte di Gemito è libera, antica e nuova insieme. I suoi scugnizzi si riportano alle sculture della Magna Grecia, che sono profondamente intrise di quell’ellenismo, definito “perenne” da John Ruskin (1810-1900), che Vincenzo andava a osservare al Museo Archeologico.  E che, non rinchiusi nel cliché di una innocenza melensa, sono anche vive presenze del  suo tempo.  “Il Giocatore”, la scultura di uno scugnizzo, realizzata da Gemito diciassettenne, fu premiata dalla Società Promotrice di Belle Arti. Acquistata dal Governo, nel 1874 comparve poi - riferisce Maria Tamajo, una delle curatrici della mostra di Capodimonte - nell’inventario delle Opere di Privata Spettanza del Re. In quegli anni, inizia il successo di Vincenzo Gemito, che sarà ribadito durante il suo soggiorno a Parigi, dove ebbe anche l'’ncarico di realizzare un’opera per il Re Francesco II di Borbone, allora in esilio nella capitale francese. Tornato a Napoli, Vincenzo lavorò con entusiasmo, per quasi un anno, a quello che forse è il suo capolavoro: “L’acquaiolo”. Diverso fu l’atteggiamento di Gemito quando il Re Savoia gli comandò di realizzare una statua dell’imperatore Carlo V. L’artista ebbe una crisi tremenda. Lui, che aveva cercato tutta la vita la verità, ora si trovava a esaltare un Potere che ormai si rivelava malefico per il suo popolo. Si ribellò, si scagliò contro la statua e contro se stesso, che stava tradendo la sua arte. Lo rinchiusero in una clinica. Poi, per venti anni, lui stesso si rinchiuse in casa. Alla fine, ne uscì. Era ancora un ottimo artista. Ma non era più lui.